Il mio rapporto con la fotografia nasce quando, ancora studente del liceo artistico, iniziai a praticare di sviluppo e stampa presso lo studio di un amico appassionato dilettante.
Non avrei posseduto un apparecchio fotografico per qualche anno ancora, ma il fascino del lavoro sulle immagini ripagato dal risultato stampato sulla carta mi catturò senza mai più abbandonarmi.
Oggi continuo a farlo con gli strumenti attuali, trascorrendo molte ore in sedute di sviluppo digitale in Lightroom, non più al buio ma alla luce del monitor, fino a quando non ottengo una immagine su carta che si avvicini alla mia aspettativa.
La mia prima reflex fu una Miranda Sensorex II, acquistata a diciassette anni con i proventi del mio primo lavoro di progettazione, e cominciai a girare con i miei quasi tre chili di metallo e vetro ottico ovunque andassi. Il Feininger rilegato in tela che mi trascinavo dietro consultando, controllando, ricontrollando e sperimentando devo averlo prestato a qualcuno e non l’ho più trovato.
Con l’inizio degli studi di architettura cominciai a comprendere il ruolo della fotografia nel mestiere dell’architetto, segnatamente nel moltiplicare l’efficacia del rilievo in fase di rilevamento. Ma anche la partecipazione alle accurate sedute di ripresa delle realizzazioni concluse finalizzate alla pubblicazione, cui partecipavo nel corso del mio tirocinio svolto in diversi studi professionali parallelamente alla formazione accademica, mi chiarivano progressivamente le potenzialità della interpretazione fotografica dello spazio. In quel periodo trovavo continui motivi di distrazione passando voracemente tra letture monografiche di Louis Kahn, Carlo Scarpa e Alvar Aalto, ad Ansel Adams, Gianni Berengo Gardin, Elliot Erwit e poi ancora Steve McCurry, Gabriele Basilico, Sebastião Salgado.
Col tempo mi è sembrato di acquisire consapevolezza sul fenomeno della trasversalità (o convergenza) nelle espressioni delle arti visive applicate e da questo allenamento, come in tutte le cose, è nato il piacere della sensazione di cogliere i segreti legami che esistono tra le diverse espressioni figurative, guardando pittura, scultura, fotografia, cinema e architettura con un registro comune. Non c’è dubbio che Wim Wenders ci parli sempre di architettura, come è chiaro che Sebastião Salgado fotografo e Godfrey Reggio regista ci comunichino asserzioni di un linguaggio intimamente connesso.
Non è certo questa la sede per un approfondimento sul tema del rapporto empatico tra le arti visive, ma se è vero che tutta la realtà è tale in quanto percepita è conseguenza necessaria che essa, di per se, non esista. Perché esista deve essere riconosciuta, interpretata, connessa ad altri processi. Così mi sembra che il fotografo veda quello che gli altri possono solo guardare al pari di come l’architetto conferisce senso allo spazio naturale esistente estraendo da esso il segno.
È successo così che mi sono trovato a vedere nelle immagini che a miliardi passano sulla retina nell’atto del guardare, percezioni e suggestioni che ho riconosciuto e quindi in certo qual modo progettato, che hanno un terreno di coltura comune, anzi appartenente alla mia formazione di architetto. Fotografia asservita all’architettura o fotografia come ricerca di architetture? Non lo so: forse il piacere (mio) è quello di continuare a cercare la risposta sapendo che non è affatto importante trovarla.