PROGETTI

Ho sempre pensato all’architettura e al progetto in generale come quanto di più distante dalla categoria della “moda”. Ne consegue un rapporto inevitabilmente di estraneità con il diffuso fare architettura dressed, dove tutto è un biancore anemico, dove nuovi ipotetici archetipi di volumetrie e relazioni tra piani e volumi sono possibili solo nella modellazione 3D e danno luogo a spazi approssimativi, precari, imprecisi estranei alla sapienza del costruire e privi di dettaglio.

Il mio profondo legame con la regola e con il metodo non nasce nella facoltà di Architettura di Napoli, bensì prima, quando negli anni settanta ho potuto sperimentare i nessi tra materia e percezione, tra regola e relazione, nel corso degli studi per il diploma conseguito presso il Liceo Artistico di Napoli.

Penso che quello sia stato un percorso formativo determinante, sicuramente legato all’opportunità storica di essere allievo di Gianni Pisani, Guido Tatafiore, Carmine di Ruggiero, Rubens Capaldo, ed altri importanti riferimenti dell’avanguardia artistica napoletana di quegli anni.

Nell’iscrivermi al corso di laurea in architettura, il distacco dalla consuetudine del fare, necessario per appropriarmi del sapere (o dei saperi), è stato difficile e graduale. Accedere immediatamente quanto casualmente alla bottega di Ermanno Guida, partecipando come giovane apprendista a progetti e concorsi mi ha empaticamente formato come architetto-pratico, avvicinandomi all’industrial design e immergendomi in un fare artigiano, potendomi accostare al lavoro e alla persona di figure come Roberto Mango.

L’interesse per la cultura materiale e l’approccio “organico” con l’architettura e con il progetto li ho riconosciuti appena entrato all’università nel 1976, quando il convegno su Frank Lloyd Wright, esperienza indimenticabile nella cornice del teatro di corte di Palazzo Reale a Napoli, vide la trascinante e suggestiva partecipazione di Bruno Zevi negli anni in cui i riferimenti più intensi sono stati Carlo Scarpa, Lewis Kahn, Alvar Aalto, ma anche il dilagante incedere dell’industrializzazione edilizia, entrato nelle discipline formative con le Olimpiadi di Monaco e le tenso-strutture, ma prima ancora con le suggestioni tecnologiche e visionarie del gruppo Archigram, con i progetti e la maniera di Norman Foster e con gli “errori” giovanili di Renzo Piano.

Dopo le esperienze dei laboratori di tecnologia seguite al terremoto nel 1980 con l’approfondimento delle urgenti necessità abitative che si vollero risolte nella cultura progettuale dell’epoca con la pre- fabbricazione edilizia a basso costo, l’interesse per linguaggi e riferimenti materici forti, propri di una architettura con i piedi pesanti, vennero dall’insegnamento di Francesco Venezia e dallo studio di personalità come Álvaro Siza.

La tesi sperimentale in Tecnica delle Costruzioni, con uno studio di industrializzazione edilizia fortemente connesso all’uso del calcolatore in cui si sono ricercate euristiche da applicare alla ricerca di vie innovative tra sistemi chiusi e sistemi aperti, ha richiesto due anni per la costruzione delle necessarie competenze informatiche e per l’acquisizione della conoscenza dei procedimenti e delle tecnologie di cantiere.

La particolarità e la ristrettezza del mercato della professione che mi hanno da sempre visto impegnato più nel recupero, nel restauro e nella ristrutturazione, mi hanno spinto ad affinare l’attitudine all’osservazione della scena dell’azione progettuale, mantenendo e forse accentuando quella naturale predisposizione alla percezione finalizzata alla interpretazione più che alla rappresentazione del reale.

È nato così un legame forte con la fotografia che non si è mai spezzato, prima quasi a sublimare la pratica artistica e poi per una sempre crescente esigenza di connotare con l’interpretazione la lettura della realtà percepita.

 

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